Cartoline persiane/2 – Yazd
Yazd è un arrivo prima dell’alba nell’aria pungente e uno sketch di Charlie Chaplin sugli schermi dell’autostazione.
L’ocra ritorna, sono i mattoni di fango che ne hanno fatto la città più grande e più antica edificata con questo sistema. A tratti ne restano solo macerie, magari nascoste dietro una porta mezza sfondata, altrove invece quei muri che stupiscono gli occhi di chi è nato e cresciuto in pianura padana lasciano ancora più sorpresi per ciò che celano al loro interno, come l’ostello in cui credevamo che saremmo stati e la guest house in cui ci hanno alla fine alloggiato, in cui la sera l’aria porta l’odore dei fiori di arancio.
Città emblematica ed emblema, quasi baluardo nell’arido di un pre-deserto che si desertifica del tutto a poche decine di chilometri, tiene le tracce della fede zoroastriana di cui fu ed è capitale in secondo piano, come per proteggerle. E non stupisce: questa fede antica e preziosa che ha dovuto cedere alla conquista araba e islamica ma che, dice la leggenda, è stata capace di aprire montagne e generare sorgenti, è racchiusa nel viso e nei gesti di Makhroh.
Tra le poche case antiche del villaggio di Cham, ci mostra il quotidiano della comunità di cui fa parte, il lavoro, la storia. C’è una grande dolcezza nel suo sguardo, come un richiamo al ritorno alla natura, nostra origine, alla fine di questa vita.
Le torri del silenzio, dove gli zoroastriani deponevano i loro morti perché fossero consumati dagli elementi e dagli avvoltoi, ritorno solo apparentemente crudele alla natura, rimangono come edifici dimenticati ai margini delle città; eppure trovarcisi davanti e varcarne la soglia è un gesto che sa di potenza, di un sapere a cui non siamo più capaci di tornare, di rispetto.
Ed è buffo trovare la pioggia in più momenti, in questa città nata e rimasta arida, in cui i serbatoi d’acqua sotterranei sono raffreddati da efficienti torri di areazione.
Ripartiamo con l’idea di aver fatto esperienza di qualcosa di altro ed è per noi tesoro.