[Dagli archivi] A portata di clic. Testo scritto per la mostra fotografica Un emiliano postmoderno (Correggio, 2013)

[Dagli archivi] A portata di clic. Testo scritto per la mostra fotografica Un emiliano postmoderno (Correggio, 2013)

Avevo scritto questo testo nel 2013 per il volume che accompagnava la mostra fotografica Un emiliano postmoderno – la via Emilia di Pier Vittorio Tondelli. Rimasto fuori dalla pubblicazione finale (per ragioni di spazio e budget), ha comunque accompagnato l’esposizione degli scatti di Andrea Paolella. L’ho ritrovato e riletto questa mattina, mentre facevo alcune ricerche bibliografiche sul tema. Ho voglia di ripubblicarlo qui non solo per dargli una nuova visibilità, ma soprattutto perché anni fa osservavo – tra i tanti – alcune tendenze che non hanno fatto altro che accelerare. Bologna è al centro di queste righe, ma è Bologna come una quasi metonimia: allargando lo sguardo ad altre città, ad altri paesi, non cambiano troppo le osservazioni. In più, citavo Marco Mancassola che parlava di “generazione locked in”, rappresentazione di un disagio che va ora a sommarsi a quello della generazione/società “locked down. E tutto resta ancora – e ancora di più – a portata di clic.

“Ho speso troppo tempo e il tempo si è accorciato.”

Massimo Volume, Litio

Quando penso a Bologna, a com’era quando a viverla era Tondelli e a come è oggi, penso alle differenze. Quelle che attraversano le geografie: reali, sociali, mentali. Penso a quanto sia cambiata la città, nonostante i portici che ti abbracciano e ti proteggono (a volte, così tanto da non lasciarti vedere il cielo) siano sempre gli stessi, percorsi e ripercorsi da infiniti passi. Penso ai “paki” (tutti li chiamano così, anche se molti vengono dal Bangladesh) e ai loro alimentari aperti ogni giorno dell’anno fino alle dieci di sera. Che d’estate stanno sulle soglie delle loro botteghe, a boccheggiare il caldo, a scambiare parole e sigarette. Salvezza degli studenti, che ci comprano il vino acido da pochi euro per passare le notti e il detersivo la domenica pomeriggio quando, dopo mesi, si decide che la casa deve essere pulita. Questi negozi sono semplicemente diventati parte della città, mutandone abitudini e geografie.

Poi c’è qualcosa di nuovo e diverso, qualcosa che ha a che fare con il “progresso” (e, di conseguenza, con le nuove generazioni), di cui Bologna è solo un esempio. Oggi è normale sentire, per strada in zona universitaria, sui treni dei pendolari, nelle osterie, conversazioni in cui si racconta di qualcosa accaduto su Facebook. Internet ha cambiato il nostro modo di relazionarci, di agire nella società, di impegnarci. Come se avessimo delegato un pezzo della nostra socialità a un sistema chiuso (e di proprietà di un’azienda) e, per di più, smaterializzato.

Nelle strade di Bologna, in quella via Zamboni di vita universitaria che Tondelli attraversava, c’erano le cicatrici dei carri armati contro gli studenti, c’era il sangue di Francesco Lorusso morto per un proiettile dei Carabinieri, uno dei troppi. Il tessuto sociale che si riempiva di vittime – per il piombo, per l’eroina, per il richiamo di una tranquilla vita borghese (“ed è una morte un po’ peggiore”) –, e si andava così lacerando, preparava il riflusso del decennio successivo la cui forza di omologazione era contrastata dalle sottoculture (musicali, artistiche, di costume) che Tondelli raccontava con sguardo acuto, a volte ironico, sempre partecipe.

Certo non si può circoscrivere al capoluogo emiliano il cambiamento che internet ha portato con sé nella vita di tutti i giorni, ma il riflesso di ciò che (ci) sta mutando è forse più nettamente percepibile proprio in quei contesti che hanno (avevano?) una tradizione decennale di produzione culturale, di relazioni vissute anche per strada, nei bicchieri di vino tirati giù tra le osterie, nei corridoi universitari. Perché, in fondo, si tratta di “tenere il culo in strada”1, come dicevano i Wu Ming, collettivo di scrittori bolognesi, in una discussione sul loro sito, e il culo in strada non lo si tiene quasi più, comunque molto meno. È più facile che stia poggiato su una sedia, o su un divano, dentro casa, con un computer davanti, a sudarsi i pochi euro di un lavoro precario, a cottimo, da proletariato intellettuale, in una città in cui la disoccupazione, in particolare quella giovanile, sta continuando ad aumentare.

Perché se negli anni novanta Bologna è stata attraversata dall’onda dei centri sociali, con idee e culture che risalivano dall’underground per costruire nuovi linguaggi, negli anni zero ci si è ripiegati all’interno. Siamo la generazione locked-in, scriveva Marco Mancassola, chiedendosi “perché un popolo di trentenni precari e sottopagati, de-realizzati, senza prospettive su alcun piano, si limita a soffrire ognuno per conto suo, nel chiuso ermetico della propria esistenza?”2. Forse abbiamo sostituito “possibilità” con “precarietà” e il nostro cervello macina i pensieri in conseguenza.

Intanto, mentre i bolognesi si chiudevano un po’ di più, qualcun altro è arrivato sulla scena, qualcuno che Tondelli aveva avuto modo di osservare in altro contesto, in una Londra già meticcia durante i suoi viaggi: i migranti.

Che cosa sta facendo questo vecchio, decrepito continente al Terzo Mondo? Questo popolo di pirati e di beoni rissosi alle sue ex colonie, ai suoi ex sudditi, a chi ha piegato con la frusta e la violenza dopo averlo depredato e sfruttato? Con quale ipocrisia l’europeo impone regole e comportamenti come se i valori fossero ancora dell’Occidente quando invece tutto dimostra il contrario? Qual è la ragione per cui da ogni angolo del mondo i più disgraziati, i più poveri, i reietti della storia, le valanghe di straccioni, le orde di pezzenti e di mendicanti invadono le città dovendo addirittura scimmiottare, per integrarsi, di essere educati, perbenisti, ipocriti come tutta intera la middle class europea?3

Non è quello che succede anche qui, all’ombra, civile e densa di storia, delle due torri?4 Alla domanda “come l’avrebbe raccontato Tondelli, vedendolo accadere nelle sue strade?” non ha molto senso rispondere: l’ha già raccontato, così, e quella Londra degli anni ottanta è anche la Bologna di oggi, a conferma di uno sguardo capace di arrivare in profondità e di leggere i fenomeni della realtà (e della storia) nel suo dispiegarsi. Gli sgomberi degli accampamenti di rom rumeni sul lungo Reno sono arrivati alle cronache nazionali, ma quelli che avvengono ogni settimana ai margini della città, negli accampamenti improvvisati in cui sembra impossibile che qualcuno viva, non fanno più notizia, fanno parte di quella ordinaria amministrazione (di sinistra) che ha voluto superare (a destra) l’idea di sicurezza. Bologna è stata laboratorio, avanguardia ed esperimento.

Perché Bologna è anche la città del Pci che non è più il Pci, la città della svolta della Bolognina, la città in cui l’ideale di un’amministrazione efficiente e onesta si è sgretolato, man mano e poi sempre più velocemente, lasciando i bolognesi più cinici e disillusi, a tenersi stretto per sé quel poco di sicuro che sentono di avere. Intanto la città è rimasta dov’era e tutti i progetti che avrebbero dovuto portarla nel terzo millennio, in termini di modernità e infrastrutture, sono rimasti fermi o, peggio, sono finiti male, impaludati nella perdita di capacità amministrativa (e di etica politica).

Nel frattempo, Bologna continua a vivere l’eterno conflitto con gli studenti che fanno la vita e la ricchezza di questa “città sempre più perbenista”5, con i problemi di orari e quiete pubblica che sono tra le cose che restano uguali nel tempo. Bologna è diventata la città dei divieti, dei locali da cui non si può uscire con il bicchiere in mano, delle ordinanze contro il “degrado”. E forse si fa vedere meno anche quel Beppe Maniglia, che ha sempre dato a chi lo ascoltava l’idea che avrebbe continuato a suonare le sue melodie in piazza Maggiore e, ogni tanto, a lanciare la sua candidatura a sindaco.

C’è un ultimo discorso, una differenza che non è solo di Bologna ma che qui si fa sentire. Al tempo di Tondelli non c’erano i voli low cost, quelli che permettono alla mia generazione di considerare normale andarsene per il weekend a Londra o a Berlino, Madrid, Parigi. Trent’anni fa gli orizzonti erano un po’ più lontani di oggi. Bologna era una mecca, una città desiderata, soprattutto per chi veniva dal sud Italia. Ora che spostarsi in tutta Europa è diventata una delle cose più semplici e naturali da fare, Bologna forse veste un tono minore. È facile arrivare, ma è molto più facile andarsene. In cima all’Autobrennero, tirando dritto, c’era l’Olanda, e si partiva proprio da lì, direttamente da Carpi, “a spolmonare quel che ho dentro”: l’apertura era mentale, figurativa e, per questo, assolutamente reale e desiderata. Oggi tutto è già aperto, l’attesa e l’immaginazione si sono accorciate. Ritrovarsi (e definirsi) forse oggi è diventato un processo più insicuro, spiazzante. Anche se le possibilità sembrano essere tutte lì davanti, a portata di clic.

Note

1 http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=5832&cpage=1#comment-9164.

2 Marco Mancassola, Generazione locked-in?, il manifesto, 7.11.2010. Disponibile online all’indirizzo: http://www.marcomancassola.com/marco_mancassola_a_nord/2010/11/generazione-locked-in.html.

3 Pier Vittorio Tondelli, Camere separate, in Opere. Romanzi, teatro, racconti, a cura di Fulvio Panzeri, Bompiani, 2000, p. 982.

4 Si legga, per esempio, l’inchiesta di Antonello Mangano sugli irregolari nei cantieri bolognesi: http://www.linkiesta.it/bologna-infiltrato-un-cantiere-con-i-clandestini-nero.

5 Pier Vittorio Tondelli, Un weekend postmoderno, in Opere. Cronache, saggi, conversazioni, a cura di Fulvio Panzeri, Bompiani, 2001, p. 244.

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