Due anni da maître de langue: sulla mia prima esperienza da prof universitario

Due anni da maître de langue: sulla mia prima esperienza da prof universitario

Ora che il mio contratto da maître de langue ad Avignon Université è (praticamente) concluso, vorrei mettere giù alcune riflessioni su questi due anni di insegnamento, che sono stati la mia prima esperienza da professore all’università. In realtà avrei voluto (dovuto?) scrivere queste righe subito dopo la fine dei corsi, a caldo, ma il lavoro sulla tesi ha – giustamente – avuto la priorità. Il vantaggio è che ora la scrittura della tesi è quasi al termine (mancano introduzione, conclusioni e la revisione finale), lo svantaggio è che forse alcune delle considerazioni che avevo in mente e non ho annotato si sono perse: pazienza.

In sintesi

Insegnare è stata un’esperienza in cui mi sono trovato molto bene, che vorrei continuare. Mi ha posto nuove sfide, che ho affrontato al meglio delle mie capacità e del mio impegno, mi ha messo in contatto con una generazione (17-23 anni) che non conoscevo e che è stato interessante scoprire. Nonostante il mio inguaribile pessimismo (che mi fa pensare che, in fondo, su questo pianeta siamo ormai spacciati – avvicinandomi peraltro, in questo e almeno un po’, al sentire di una buona parte dei miei studenti), sono convinto che qualcosa di bello e importante sia accaduto: abbiamo lavorato e costruito insieme, abbiamo imparato, abbiamo condiviso. Questo non era e non è scontato e di questa esperienza sono grato, prima di tutto ai miei studenti, per la loro partecipazione e il loro coinvolgimento, ma anche all’università di Avignone che mi ha dato questa opportunità e ai colleghi per il loro aiuto e sostegno.

Il mio lavoro

Il ruolo di maître de langue si differenzia da quello di lettore soprattutto perché il primo è responsabile delle valutazioni degli studenti che, quindi, devono sostenere esami per passare il corso. Non aggiungo note sul come funziona il modello universitario francese perché non mi sembra utile in questa sede e, inoltre, non ho termini di paragone recenti (prima di iniziare il dottorato nel 2020, avevo chiuso la mia esperienza universitaria nel 2002, ancora nel ‘vecchio ordinamento’). Per quel che riguarda i miei corsi, tutti di lingua italiana, la maggior parte delle ore erano nella triennale LEA (Langues étrangères appliquées) dove lavoravo sull’espressione orale; le altre ore erano parte della triennale e della specialistica in storia (espressione orale e scritta). Il vantaggio di questo tipo di corsi (TD, travaux dirigés) è che l’obiettivo è lavorare con gli studenti, farli lavorare sulla lingua quindi sono (o dovrebbero essere) molto pratici, interattivi. L’altro elemento per me molto positivo è che non c’è un programma definito: il professore è libero di scegliere gli argomenti e questo dà la possibilità di cercare anche temi e modalità che siano più vicini alla sensibilità e all’interesse degli studenti.

Io (prof) + voi (studenti) = noi (su disciplina e responsabilità, costruire relazioni e anche su voti e potere, passando da bell hooks)

Quando mi sono presentato per la prima volta davanti alle mie nuove classi ero agitato. So che nei primi minuti si formano impressioni e opinioni, si può catturare l’attenzione, si possono aprire porte e canali di comunicazione. Oppure no. Sono momenti fondamentali, da cui poi si va avanti a costruire. Ho la fortuna di essere abituato a parlare in pubblico (e, in parte, anche a intrattenerlo, il pubblico) e questo mi ha facilitato l’approccio, ho anche la fortuna di aver intorno insegnanti di diversi livelli (dalle elementari all’università) che mi hanno aiutato condividendo le loro esperienze e i loro consigli.

Ci sono però due cose che per me sono state chiare sin da subito e che ho cercato di far capire agli studenti: siamo un noi e siamo qui per lavorare e imparare insieme. Anzi, il mio mantra è stato “siamo qui per sbagliare”: dagli errori di italiano fatti insieme durante il corso tutti possono imparare e l’aula è il luogo migliore per fare errori perché possiamo correggerli a beneficio di tutti. E ancora: credo molto di più nella responsabilità (responsabilizzazione) che nella repressione anche se a volte, per disciplina e per dovere, ci sono decisioni dure da prendere. Sono sempre stato molto disponibile nei confronti degli studenti (argomenti da trattare, flessibilità su tempi e modi in caso di problemi o difficoltà personali) ma non tollero né che il lavoro insieme sia preso sotto gamba né, men che meno, che si cerchi di prendere in giro me – e quindi anche gli altri che lavorano con impegno – cercando sotterfugi o sperando di farla franca.

Siamo prima di tutto esseri umani, prima ancora che professore e studenti e cercare di stabilire una relazione paritaria, per quanto possibile, è sempre stato tra i miei obiettivi. Questo non toglie il fatto che sono io che alla fine devo valutare e mettere i voti. Anche in questo caso ho sempre cercato di spiegare che il voto rappresenta una fotografia di una prova precisa e non una valutazione assoluta sulla persona e che l’importante è imparare qualcosa, non tanto il voto che si prende: ho sempre spiegato il perché della valutazione, illustrando anche gli errori principali e gli elementi a cui fare attenzione. Devo aggiungere poi che il ruolo di professore è comunque un ruolo di potere e il potere mi mette a disagio. È per questo che ho cercato di seguire gli insegnamenti di bell hooks, quelli raccontati in Teaching to transgress, lettura a cui mi sono dedicato prima di passare “dall’altro lato”, da (ex) studente a professore.

Una specie di bilancio, tra attività, feedback e “crescere insieme”

In questi due anni, con le classi che ho avuto, abbiamo lavorato bene, abbiamo fatto cose interessanti anche se ovviamente non tutte allo stesso modo e non per tutti. In questo i commenti e i feedback degli studenti sono stati molto importanti per me, anche se le prime volte, quando chiedevo commenti e critiche, vedevo spesso facce spaesate e incerte, spiegate poi dagli studenti stessi che mi hanno detto di non essere abituati a questo tipo di domande (bene, dico io: mi piace spiazzare e offrire possibilità diverse, a partire dal confronto).

Bei dibattiti animati su temi di attualità, momenti di gioco e risate, letteratura e approfondimenti che spesso seguivano i temi emersi dalle discussioni in classe. Così come, anche per mia curiosità, spesso si parlava dei loro percorsi di studio e delle esperienze di lavoro, ma anche dei loro interessi (alcune lezioni e anche alcuni esami li ho fatti partendo dai social media e da come loro li usano, cercando di condividere un approccio critico e consapevole a questi temi). Ho sempre preso sul serio gli studenti e le loro domande, così come loro hanno preso sul serio il percorso di apprendimento che proponevo loro. Ho cercato di seguire il ritmo di lavoro delle classi, adattando o modificando completamente le attività a seconda della risposta che ricevevo dagli studenti. Allo stesso tempo, però, ho cercato di “tirare verso l’alto”, di proporre livelli di difficoltà che comportassero un lavoro sempre un po’ più approfondito e che, proprio grazie a questo, permettessero ogni volta un avanzamento nell’apprendimento (approfittando anche della presenza di alcuni madrelingua italiani nelle varie classi). Non sempre ci sono riuscito, credo, ma l’intento era quello. Ovvio: non tutti sono andati avanti negli studi e non tutti sono stati contenti dei corsi (spesso più per ragioni che avevano a che vedere con il loro percorso precedente di studi o con il fatto che non avessero davvero scelto di essere lì).

Alcuni studenti, di varie classi, mi hanno ringraziato per i temi e le attività proposte, alcuni mi hanno chiesto di giocare di più (a volte ho accettato, altre volte meno), altri ancora erano tristi che non sarei rimasto (ma il contratto non può essere prolungato oltre i due anni) perché nei due anni in cui abbiamo lavorato “siamo cresciuti insieme”: vero (e bello) ma va bene anche così, con insegnanti diversi, modalità e sensibilità diverse: non può che essere una ricchezza. Non mi sono mai sentito indispensabile, ma in piccole osservazioni, in commenti o condivisioni, ho capito che qualcosa era rimasto (oltre ai progressi in italiano) e questa per me è una grandissima soddisfazione.

Certo, ci sono state difficoltà, soprattutto all’inizio. Ricordo un’intervista che mi hanno fatto due studentesse per un lavoro richiesto da un altro corso in cui spiegavo che spesso, per scegliere un articolo da proporre alla classe, ne leggevo una decina sul tema che avevo deciso, finché non ne trovavo uno adatto a loro (per il livello di difficoltà della lingua, per il tipo di dibattito e domande che avrebbe potuto suscitare, per lo stile); capitava poi però che la classe rimanesse muta – o quasi – davanti all’argomento e alle mie domande: be’, quei momenti sono stati frustranti, soprattutto perché l’interrogazione era verso me stesso e il mio lavoro: cosa avrei potuto e dovuto fare meglio? Ricordo le loro facce un poco sgomente mentre mostravo questi aspetti del lavoro che di solito rimangono nascosti. Ho imparato dai miei errori, alcuni dei quali mi sono stati fatti notare dagli studenti – come l’aver inserito un lavoro sulla grammatica nella seconda parte del semestre invece che all’inizio. E sono sicuro che quello che ho imparato darà frutti quando mi ritroverò di nuovo a insegnare.

Un futuro di ricerca e insegnamento: perché no?

Anche se i corsi di storia che ho tenuto avevano una componente importante di lezione frontale (del resto di formazione sono uno storico e mi piace insegnarla come materia!), le mie ore di insegnamento sono state tutte molto pratiche, concrete, come spiegavo prima, proprio per la tipologia di corsi che mi erano stati assegnati. Sarò felice di testarmi, in futuro, su lezioni più teoriche, in particolare intorno ai temi verso cui mi sta portando la mia ricerca, che dalla scrittura digitale si sta spostando verso un nucleo teorico interdisciplinare in cui scienze umane, informatica e scienze dure lavorano insieme a un tentativo di comprensione comune delle nostre società digitali.

Dicevo che mi sono trovato bene nell’insegnamento, inteso nel modo che ho cercato di raccontare in questi paragrafi. Insegnamento che è quindi, allo stesso tempo, trasmissione (e condivisione) di conoscenze e costruzione di relazioni umane, stimolo allo spirito critico e invito alla curiosità (reciproca) nello scoprire conoscenze e possibilità nuove.

Il lavoro di questi due anni è stato molto intenso, anche perché gli anni accademici da maître de langue sono stati anche gli anni in cui ho scritto la mia tesi di dottorato, che è ormai arrivata alla fine. Sono soddisfatto e c’è sempre da migliorare, ma questo mi sembra un ottimo punto da cui partire.

PS Se qualcuno di voi ex studenti passa per caso di qua, sentitevi liberi di commentare! 🙂

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