Cartoline persiane/5 – Shiraz
Shiraz, tu, città che sbocci a primavera, da cosa desideri che inizi a cantarti? Il tuo ritmo è lento, le tue genti sorridono, sei da sempre celebre per i tuoi vini e sei stata casa per il grande Hafez e i suoi versi d’ebbrezza, amore e altri misticismi.
Potrei fermarmi qui e basterebbe. Forse: shirazi, in Iran, è sinonimo di pigro e io che sono pigro qui mi sono sentito a casa, anche se siamo arrivati troppo presto per vedere in fiore le rose del suo giardino botanico. Una ragione per tornare, insieme al vino, quando di nuovo scorrerà libero attraversato dai raggi del sole, come le vetrate colorate della Moschea rosa, attrazione e meraviglia più che preghiera, luogo di foto più che di culto.
Shiraz, per noi, è anche esempio di ospitalità e apertura: abbiamo incontrato S. in una stazione di servizio lungo la strada, quattro giorni dopo eravamo a casa sua, accolti come famiglia.
In mezzo qualche centinaio di chilometri, un paio di notti in tenda e la visita a Persepolis, capitale persiana a noi nota con il suo nome greco, fondata da Dario I e distrutta dalle truppe di Alessandro Magno.
Shiraz è arak (un distillato, forte come deve) e chiacchiere, film guardati insieme tra cuscini e coperte, cheesecake e gnocchi preparati ridendo, le nostre prime partite a backgammon.
Ma anche Haji Firuz, che per le strade canta e annuncia l’anno nuovo, il gusto del faludeh, una sorta di gelato di vermicelli di riso. E ancora: le sue ragazze dai bei sorrisi, la tomba di Hafez e i versi vecchi e nuovi declamati fuori dai cancelli.
A Shiraz ci si posa ed è difficile decidersi a ripartire. Farlo costa un po’, pegno pagato in un traffico impazzito che non ti lascia spazio, come se la città sapesse che vuoi andartene e provasse a trattenerti ancora, con rabbia, strappata dal vento furioso la sua gentilezza.