Virus, linguaggio ed economia (appunti per resistere al collasso)
Will the Next Big One be caused by a virus? Will the Next Big One come out of a rainforest or a market in southern China? Will the Next Big One kill 30 or 40 million people?
David Quammen, Spillover: animal infections and the next human pandemic
…nel punto in cui si incontrano il sistema dei media e il nostro sistema nervoso.
J. G. Ballard, citato da Antonio Caronia nella postfazione a La mostra delle atrocità
Language! It’s a virus!
Laurie Anderson
Language! It’s a virus!
A forza di giocare con il linguaggio, a forza di ridurre il suo spazio, abbiamo ridotto al minimo la possibilità di capire il mondo che ci circonda.
Jean-Paul Fitoussi, La neolingua dell’economia
Premessa necessaria: non parlerò di virus da un punto di vista scientifico, perché non ne ho le competenze. Ma questa epidemia che si sta diffondendo, oltre a toccare direttamente la mia vita come quella di migliaia di altre persone, ha come creato un cortocircuito tra diverse riflessioni che nella mia testa e nei miei appunti vanno avanti da tempo, creando delle zone di contatto. Di queste zone voglio cercare di scrivere, consapevole che il risultato non potrà che essere frammentario e incompleto, ma tout se tient, almeno questa è l’impressione. Inoltre, è probabile che questo mettere insieme frammenti aprirà ancora più domande di quelle che ho in mente all’inizio.
Distorsione della realtà, disinformazione come virus, finanza contro vite umane
In tantissimi hanno scritto riflessioni culturali critiche e molto lucide sul diffondersi del coronavirus e sugli effetti che le decisioni politiche per contenerlo hanno sulle nostre vite e sulla società. Ne segnalerò alcune, per inquadrare meglio il discorso, iniziando dal Diario virale dei Wu Ming (prima parte – seconda parte) il cui immenso valore aggiunto sta nella ricchezza e nella qualità dei commenti: consiglio di leggere tutto, perché è uno spazio importante di elaborazione culturale.
Le reazioni scomposte di politica e media in Italia hanno da subito alimentato confusione e paura, suscitando le conseguenti reazioni scomposte di massa: dall’assalto ai negozi per mascherine e Amuchina agli atti razzisti contro i cinesi (o contro i migranti). Nessuna sopresa, dato che queste spinte al panico sono arrivate su una società già fragile, impaurita, incattivita (e sempre meno capace di comprendere la realtà).
Il caso italiano può sembrare atipico ed eccessivo (spesso è così, purtroppo) ma è l’Organizzazione mondiale della sanità a parlare per prima di infodemics: oltre all’epidemia, dunque, in atto c’è una infodemia, definita come “global epidemic of disinformation”, che si diffonde velocemente “through social media platforms and other outlets”. Sylvie Briand, responsabile per l’OMS della strategia per contrastare questa infodemia, sottolinea le differenze rispetto al passato, costruendo una analogia tra il virus che colpisce le persone e la diffusione di false informazioni:
the difference now with social media is that this phenomenon is amplified, it goes faster and further, like the viruses that travel with people and go faster and further.
Considerando che “il linguaggio ha un potere di distorsione della realtà” (Fitoussi), quali sono le conseguenze delle parole usate per veicolare notizie false e paura? C’è qualcuno che trae vantaggio da questo, così come da un continuo imporre stati di emergenza ed eccezione?
Prima considerazione: la sospensione delle lezioni scolastiche e universitarie comporta la messa in piedi di soluzioni per l’apprendimento a distanza e quali sono le soluzioni preferite in questo momento? Quelle proposte da Google e Microsoft, le cui iniziali sono la G e la M dell’acronimo GAFAM, ovvero le maggiori aziende tecnologiche che operano nel campo del capitalismo della sorveglianza. Siccome il loro successo economico si basa sull’estrazione di dati dalle nostre vite, non stupisce che siano in prima linea per approfittare di questa crisi per entrare nel sistema scolastico e avere così nuovi dati da mettere a profitto. Allo stesso tempo, è un ennesimo passaggio verso la privatizzazione della scuola, come sottolinea giustamente Wu Ming 1. Si dovrebbe inoltre portare l’attenzione sulla spinta che stanno già ricevendo le tecnologie della sorveglianza, dal riconoscimento facciale ai droni: molti governi occidentali staranno guardando alla Cina come modello, almeno per questa emergenza sanitaria ai tempi dell’intelligenza artificiale.
Sia detto en passant: le aziende che fanno profitto dall’allevamento delle persone (“people farming”), estraendo tutto il possibile dalle loro vite, non hanno alcun interesse a ridurre la diffusione di informazioni false né di discorsi basati sull’odio (ed è la ragione per cui i social network sono sempre riluttanti a intervenire per limitarli): meno dati circolano sui loro server, meno profitto possono ricavarne.
Seconda considerazione: siccome le parole fanno accadere le cose, una delle prime conseguenze/preoccupazioni dell’allarme per la diffusione del Covid-19 è stata la fibrillazione sui mercati. Se è vero che l’epidemia ha creato timori di una crisi della stessa portata di quella del 2008, è anche vero che “l’economia mondiale era già in attesa, quasi spasmodica, di una recessione” (Wolf Bukowski, qui). Ma non sono solo le speculazioni e le oscillazioni delle borse internazionali che dobbiamo considerare, perché ci sono anche i “catastrophe bond“: creati sulla carta “per ‘aiutare le popolazioni dei paesi colpiti’ da epidemie o pandemie così come da altre catastrofi”, sono in realtà strumenti finanziari dai rendimenti molto alti per gli investitori. Ciò che fa dire a Salvatore Palidda che
siamo davanti a ciò che Foucault chiamava tanatopolitica (il lasciar morire) e che oggi – a differenza dell’epoca pre-liberista – sembra prevalere rispetto alla biopolitica.
Per capire meglio di che si tratta, una citazione da un articolo di Mauro Bottarelli su Business Insider che consiglio di leggere per intero:
L’intera vicenda ha avuto inizio appunto nel 2017, quando la Banca Mondiale ha emesso due tranches di catastrophe bonds (o Cat-bond) per finanziare il progretto Pandemic Emergency Financing Facility: in totale il controvalore andato in asta è stato di 425 milioni di dollari, scadenza luglio 2020 e diviso in due tranche. La prima, più sicura e per questo di classe A ammontava a 225 milioni con una cedola annuale del 6,9%, mentre la seconda, più rischiosa e per questo di classe B, aveva valore totale di 95 milioni e staccava una rendimento dell’11,5%. Entrambe avevano due livelli raggiunti i quali scattava la clausola di default, quella che si sostanziava nella perdita di tutto l’investimento da parte dei detentori: nel primo caso, stando al prospetto informativo, occorreva arrivare a 2.500 morti nel Paese epicentro della pandemia più altri 20 in un Paese terzo. Nel caso della classe B, invece, il livello di morti era molto più basso: d’altronde, ad alto rendimento deve corrispondere un rischio più alto per l’investitore. Peccato che si parli di vite umane.
Finanza contro vite umane. Suona già sentito, vero?
Due citazioni che pongono interrogativi (intermezzo)
The coronavirus is increasingly disturbing the smooth running of the world market and, as we hear, growth may fall by two or three percent. Does all this not clearly signal the urgent need for a reorganization of the global economy which will no longer be at the mercy of market mechanisms?
Slavoj Zizek, Coronavirus is ‘Kill Bill’-esque blow to capitalism and could lead to reinvention of communism
I focolai di Coronavirus in Italia non sono un collasso ma stanno testando/palesando la tenuta di un progetto biopolitico che funziona perché appunto c’è un collasso cognitivo in atto. Non è panico o isteria quella che stiamo registrando in questi giorni, è la normale e prevedibile conseguenza di una parabola culturale prossima al crollo. È necessario un salto cognitivo, presto.
Matteo Meschiari – Antonio Vena, It’s the Anthropocene, you fools!
Che lingua stiamo parlando? Che società stiamo abitando?
Se il linguaggio è un “dispositivo di controllo”, tutte le operazioni linguistiche, soprattutto quando portate avanti da chi ha potere politico, economico e mediatico, sono in grado di cambiare o limitare la nostra capacità di pensiero critico così come i comportamenti e le idee diffuse nella società in cui viviamo.
Gli esempi potrebbero essere tantissimi: lo slogan thatcheriano, poi esteso a ogni campo dal neoliberismo, del “there is no alternative“; la retorica del decoro che orienta le politiche di governo delle città (descritte in modo incalzante e impeccabile da Wolf Bukowski in La buona educazione degli oppressi); le parole non più come vettori di significato ma come vettori di capitale (capitalismo linguistico); l’allucinazione speculativa della finanza, che si muove su voci ed echi ed è distaccata dall’economia reale (ma impone di preoccuparsi di più dello spread che delle proprie, concrete condizioni di vita)…
Questo avviene ancora di più e ancora più a fondo a ogni proclamata emergenza. Ma è una componente strutturale delle società in cui viviamo. Lo spiega molto bene Jean-Paul Fitoussi in La neolingua dell’economia, che ha il pregio di mettere in relazione diretta il linguaggio usato da politici e istituzioni (in particolare in ambito europeo) con le decisioni economiche che hanno governato l’Unione da prima della crisi del 2008.
La sua tesi è che il linguaggio sia stato manipolato al punto da espellere parole e concetti, che sono così resi, di fatto, impossibili a dirsi; non potendosi dire non possono nemmeno trasformarsi in azioni (in questo caso misure economiche alternative alle politiche di austerità responsabili del peggioramento delle condizioni di vita di gran parte della popolazione europea).
Molto difficile scegliere una citazione dal testo, perché denso e prezioso in ogni sua parte, ma ce n’è una che parla di austerità e momenti di crisi; dato che in questa emergenza sanitaria la sofferenza economica ha già iniziato a venire fuori (ovviamente i primi a sentirne le conseguenze sono quelli già in situazione precaria), queste righe mi sembrano adatte per il post:
Il ritornello della neolingua che recita che “tutti devono partecipare allo sforzo comune” diventa semplicemente indecente. E invece si arriva a ripeterlo perfino ai disoccupati. Le disuguaglianze si ostentano, non sono mai state tanto esibite: alcuni conducono vite da cani, altri da nababbi. La risposta in neolingua è risaputa: “Il problema è che non amate i ricchi, che non sopportate chi ha avuto successo”.
Jean-Paul Fitoussi, La neolingua dell’economia
Il fatto che l’epidemia di coronavirus arrivi in società che annaspano a causa di precise scelte politiche è un elemento che non si può trascurare, se vogliamo capire quali risposte culturali sono praticabili in questo ennesimo contesto emergenziale.
“Il nostro desiderio non ha nome” (perché dobbiamo inventare il futuro)
Anni fa, riempiendo fogli di appunti per un’idea narrativa a cui sto lavorando a tempo perso, pensavo a Facebook come a una creatura che diventa vivente a furia di nutrirsi della materia viva di cui ogni giorno milioni di umani continuano a riempirlo, come una sorta di intelligenza artificiale che si rende autonoma per contaminazione di emozione umana, arrivando forse anche a fagocitare i nostri stessi corpi, quando emozioni, pensieri, immagini sono già ormai stati assimilati. Qualcosa di virale, qualcosa di spaventoso, qualcosa che – guardando il mondo di oggi – a tratti sembra volersi fare più concreto di una semplice ipotesi narrativa abbandonata.
L’idea mi è tornata in mente scrivendo questo post, forse perché davvero, tout se tient: i virus, il linguaggio, l’economia – nelle loro rispettive possibili proliferazioni. Non è certo un caso che anche per le crisi finanziarie si parli di contagio, no?
L’artificio di ogni vita va ad accumularsi in un artificio più grande che solo per pigrizia chiamiamo ancora società. Siamo in una nuova forma di pestilenza. Ci si può contagiare mettendo un post su Facebook, mandando una mail, scrivendo un sms. Siamo letteralmente crivellati da quest’artiglieria mediatica. Questi proiettili non ci fanno cadere a terra, ci fanno perdere compostezza, perdiamo parole, scie di parole, pozze di parole, un sangue grigio sparso intorno a noi, vittime ed eroi della società della comunicazione.
Franco Arminio, Geografia commossa dell’Italia interna
Il titolo di questa ultima parte è una citazione dall’opera di Mark Fisher, la cui lettura quasi quotidiana mi accompagna ormai da parecchi mesi: un aiuto lucido necessario per mettere a fuoco il tempo presente. Il primo passo per capire il presente e per costruire un futuro diverso (perché non è vero che non ci siano alternative, anche se da anni ci vogliono far credere che il mercato sia l’unico orizzonte) è proprio la capacità di trovare un nuovo linguaggio, in cui le parole aderiscano alle cose, in cui le parole sappiano opporsi alle neolingue del potere e possano, infine, raccontare le nostre vite e il nostro desiderio (a cui quindi, forse, riusciremo a dare un nome).
L’immagine in apertura dell’articolo è Mask di El Bingle (pubblicata con licenza Creative Commons BY-NC).
One thought on “Virus, linguaggio ed economia (appunti per resistere al collasso)”
Gli articoli che ho letto prima di scrivere questo post sono molti di più di quelli che ho citato, ma non tutti rientravano nel percorso che ho costruito. In ogni caso, se avete link interessanti per approfondire uno o più aspetti di questi miei appunti, usate i commenti per condividerli, grazie!